sabato 19 maggio 2012

Tutt'altro che elementare, Watson

Qualche giorno fa, la mia amica Ilaria mi ha passato sei episodi della serie TV inglese "Sherlock Holmes", che ho iniziato a guardare con mio marito. Fra me e me pensavo che Sherlock fosse stato tratteggiato in modo esagerato nelle sue insofferenze e nell'iperattività, mentre Watson pareva troppo tollerante alle idiosincrasie di Sherlock. In evidente contraddizione con le mie cogitazioni, il consorte se ne è uscito con: 

"Cavolo, quelli lì sono sputati noi due". 

Ho iniziato a protestare con convinzione, fino alla scena in cui Sherlock, concentrato sul suo microscopio, chiede a Watson di passargli il cellulare, che sta nella giacca che indossa al momento. Watson scuote la testa, ma gli sfila dalla tasca il telefono, senza che Sherlock interrompa per un attimo il lavoro o gli faciliti il compito. Watson allora gli legge i messaggi, nonostante lui, saputo il mittente, dica di cancellarli, perché ne ha intuito il contenuto. 
A parte utilizzare mio marito come estensione del mio corpo, per pigrizia più che per necessità - ma questo non diteglielo - la scena del cellulare, a casa mia, si ripete spesso. Arriva un messaggio o suona il telefono e io lo ignoro. A un certo punto, il marito si innervosisce e regolarmente mi chiede perché non rispondo, e di solito spiego: 

"Il numero non è visibile e a quest'ora può essere solo un operatore di call center che vuole propormi un abbonamento Internet".

"Si sta aprendo il cancello elettrico: Serena è arrivata, quindi mia madre vuole che scendiamo a mangiare. Preferisco andare giù, così devo sentirla sbraitare che sono tutti pronti da ore solo una volta"

"E' Lucia che vuol sapere se ha lasciato da me gli occhiali: non si è ancora accorta di averli in testa".  

"Domani è domenica, mamma è stata dal macellaio, quindi preparerà l'arrosto. Si è appena accorta di non avere il vino bianco e, poiché nemmeno noi ne abbiamo, è inutile che risponda".

Perché mai dovrei rispondere se il motivo della chiamata mi è già chiaro? 

Tornando a Sherlock Holmes, come se la similitudine dell'uso del telefono non bastasse, arrivati all'episodio che introduce Moriarty, vediamo uno Sherlock mortalmente annoiato, che riceve diversi clienti a colloquio e li liquida in pochi istanti, dicendo semplicemente "boring": noioso.

L'uso sconsiderato del termine "noioso" è un altro elemento indiscutibile di somiglianza tra me e il "sociopatico iperattivo" e, di fronte all'evidenza, non si può che riconoscere i propri errori e osservare con maggior attenzione.

Certo, di Sherlock non ho certo la capacità intuitiva inverosimile, né le conoscenze interdisciplinari e nemmeno, grazie al cielo, la totale indifferenza verso la maggior parte del genere umano, ma la noia, ahimè, è un nemico sempre in agguato.

Non che mi annoi spesso, semplicemente so che non posso stare più di pochi minuti senza fare nulla. E, dolorosamente, lo sa anche mio marito.

Questo fa si che casa mia sia in perenne stato post-tsunami. Volgendo lo sguardo da un capo all'altro di una stanza, si possono scorgere pennelli e tele, tempere, acquarelli, pirografi, uncinetti, ricami, smalti da nail art, ricettari, fotografie, fotomontaggi, appunti, libri di ogni genere, alcuni scritti da me, che vanno dal serissimo "Consulenza telefonica e relazione d'aiuto" al goliardico "Kamasutra interstellare"

Il problema è che amo impadronirmi di una tecnica e, appena raggiungo risultati soddisfacenti, mi annoio. Così passo da un hobby all'altro, applicando pedissequamente il detto: "Impara l'arte e mettila da parte". 

Il bello è che poi non tollero di avere per casa le mie opere, perché sono sempre imperfette e, averle sotto gli occhi, mi irrita.

Per fortuna va molto meglio con il lavoro. Credo di essere finita nell'unico posto al mondo in grado di mantenermi interessata per una discreta parte del tempo lavorativo, o almeno quasi sempre. 

Difficile è spiegare agli altri che lavoro faccio. 

Tra i compiti che svolgo regolarmente c'è il counseling telefonico, che adoro principalmente perché richiede che, in pochi minuti, si riesca a cogliere la problematica della persona con un mezzo - il telefono - che elimina la maggior parte delle informazioni di cui disponiamo abitualmente. Per capire la situazione e fare un invio corretto al servizio di supporto psicologico, si hanno a disposizione solo ciò che dice la persona all'altro capo del filo - che spesso non dice tutto e nemmeno sempre la verità - e i suoni: tono, pause, inflessioni, rumori di sottofondo... "Sfortunatamente", i "casi" nell'arco dell'anno non sono tantissimi e davvero pochi sono "originali". 

Ogni persona è diversa dalle altre, ma ciò che ci fa soffrire sono sempre le stesse cose. 

Basta aver presente il contesto, per capire quante telefonate riceverai nella settimana e per quali motivi. Alcuni giorni prima degli appelli d'esame è il periodo di ansia e attacchi di panico, le ferie natalizie sono per la depressione e i problemi familiari, l'ultimo semestre prima della laurea è il momento ideale per i dubbi esistenziali... e via dicendo. 

Pensiamo tutti di essere strani e diversi, ma in realtà cerchiamo di nascondere agli altri ciò che più ci accomuna.

Quando suona il telefono, a seconda dell'orario, del giorno della settimana e del periodo, fare una previsione verosimile su chi si troverà all'altro capo del filo, è una cosa cui arriverebbe anche Watson. 
E' quando lo squillo arriva in momenti inaspettati che la curiosità si accende, ma non accade spesso e ciò credo sia un bene per la società in generale.

Altra attività che svolgo con regolarità, sono i colloqui di supporto al metodo di studio e il motivo per cui mi piacciono tanto è che, aiutando i ragazzi a studiare, ho modo io stessa di esplorare campi del sapere che non avrei tempo di approfondire altrimenti. 

Io sono il genere di persona che conosce il nome latino dei funghi e non è in grado di nominare il titolo di una qualsiasi canzone pop sfornata negli ultimi vent'anni.

Lavorare con le persone è comunque sempre affascinante, anche se non ne ricordi il nome. Osservarle, cercare indizi, estrapolare dinamiche interpersonali, capire cosa passa loro per la testa a prescindere da quel che dicono, che talvolta è l'opposto di quel che pensano... Le persone sono meravigliose e ancor più meravigliose sono le persone viste in interazione. Cosa ancor più importante, è che osservare le persone richiede concentrazione e attenzione. Gli esseri umani sono il sistema più complesso che si possa osservare e, per quanto ti sforzi, per quanto il 99% delle volte tu possa capire i comportamenti di qualcuno, anche la creatura più monotona del mondo, in talune circostanze, riuscirà a stupirti. 

Un contesto interessante ti fa dimenticare qualsiasi altra cosa, tipo l'ora di pranzo o che per spostarti con una carrozzina elettrica devi prima accenderla.

Le persone mi piacciono, soprattutto quelle che non comprendo o quelle che si dilettano nella comprensione del genere umano, non necessariamente a fini terapeutici. I miei amici "intimi" sono tali in quanto creature capaci di ragionamenti, osservazioni e contorsionismi mentali indecifrabili. 
Unica eccezione è mio marito Watson, perché proprio come Sherlock Holmes, senza una persona prevedibile, pratica e affidabile, che pensi a tutti i dettagli, non sopravviverei a lungo.
Lui è il tipo di persona che non si arrabbia quando rientra a casa alle venti e scopre che ero così presa da un progetto da dimenticarmi di preparare la cena.

Se ti piace osservare i comportamenti, la cosa più bella che puoi fare come parte del tuo lavoro sono la selezione delle risorse umane e i corsi su processi di selezione e comunicazione. Nel primo caso, hai l'opportunità di osservare qualcuno che è disposto a simulare qualsiasi atteggiamento pur di ottenere un lavoro che lo renderebbe probabilmente infelice a vita. Nel secondo caso, hai l'opportunità di inventare simulazioni, giochi di ruolo, creare situazioni che consentano alle persone di mettersi alla prova in contesti che credono protetti. Protetti da cosa non è ben chiaro, dato che il gioco lo conduco io.

Insegnare è noioso e non capirò mai chi si ostina a a spiegare le cose, quando può semplicemente farle sperimentare. E poi, proprio come Sherlock, mi piace "tirarmela" e dire ai ragazzi che osserveranno le dinamiche: "Alla fine, mi dovrete spiegare perché i partecipanti si sono sentiti tanto coinvolti da una simulazione al punto di continuare a parlarne anche durante la pausa caffè".

Almeno io non dico "Elementare", ma "Adoro i piani ben riusciti".

Tornando al mio lavoro, a volte esce un bando... e lì mi sento alla grande per giorni, spesso settimane intere. Mi sento come Holmes quando è strafatto di coca. Perché devi creare, inventare dal nulla qualcosa che non c'era e far capire a chi lo valuterà che non gli stai dando solo ciò che chiede, ma molto, molto di più. 
Nel mondo del copia-e-incolla, in cui la gente cambia il titolo a un format per crearne uno nuovo, non può esserci evoluzione, ma solo tedio, pessimismo e fastidio. Per stupire non serve un genio, ma qualcuno disposto a usare i neuroni.
E non è vero che pochi sono in grado di creare. La verità è che creare è faticoso e pochi sono interessati a ciò che fanno abbastanza da rendere accettabile lo sforzo. 
Almeno io, quando "medito", non fumo la pipa né suono il violino, ma inspiegabilmente, alla fine del processo, ho una delle due guance incredibilmente più rossa dell'altra e la batteria della carrozzina scarica. Questi indizi che non riesco a sopprimere mi urtano non poco, perché amo fare la misteriosa sui miei reali stati interiori e, ogni volta, chi mi conosce mi sgama:

"Hai una guancia bordeaux. Ti prego… non un altro progetto!"

Non bastasse l'afflusso sanguigno ad una sola gota a tradirmi, ho pure un'altra pessima abitudine. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da una disabile, io non riesco a pensare da ferma: vado avanti e indietro per la stanza, lasciando ovunque impronte di pneumatico e talvolta borbottando fra me e me. 

Per quando mi concerne, mi conosco abbastanza da sapere che quando la mia mente non è impegnata in qualcosa di stimolante, subentra l'insoddisfazione, che porta alla depressione, al dubitare di se stessi e dell'utilità della vita sulla Terra in generale. 
Ogni giorno si incontrano zombie uccisi dalla routine o dalla mancanza di interessi. Fare sempre e solo le stesse cose e continuare a vivere. 

Io so che quel che mi ucciderà non sarà la malattia, ma la noia.

Non che eviti i compiti noiosi: oltre alle attività stimolanti di cui sopra, faccio anche cose ripetitive. Attivo stage, dò informazioni allo sportello, rispondo a mail sempre uguali, pubblico annunci in bacheca elettronica, elaboro statistiche, scrivo report... Queste attività sono spesso preponderanti, ma necessarie. Se fai solo cose interessanti, del resto, non puoi apprezzarle davvero, perché non c'è confronto con quelle di cui devi solo disfarti il prima e meglio possibile. Tuttavia, non potrei mai fare un lavoro che non mi interessi per la maggior parte del tempo.

Essere disoccupati è terribile, ma svolgere un lavoro che odi, ti permette di sopravvivere... e non sempre ne vale la pena.

Il lavoro occupa metà delle ore di veglia e a volte di più, se sei pendolare. Se il tuo lavoro ti fa schifo, probabilmente non sarai incredibilmente felice nemmeno del resto della tua vita.

Per questo non mi sento in colpa se escludo un candidato da una selezione: io conosco il lavoro che andrebbe a fare e so che, passati i primi sei mesi di sollievo, fors'anche gioia, per aver trovato un impiego, finirebbe infelice quanto prima o forse dì più, perché si sentirebbe in trappola, non potendo permettersi il rischio di lasciare una posizione sicura, per qualsiasi altra che non dia le stesse garanzie... e non esistono praticamente posti di lavoro "sicuri" si dall'inizio. Perché quindi scegliere chi vuole un lavoro, quando puoi scegliere chi vuole QUEL lavoro?

I candidati odiano i selezionatori, perché non sanno che il loro compito non è giudicarli, ma cercare di capire se, a lungo termine, stai facendo loro un favore o un torto mortale. A volte ti "fregano" comunque, ed è triste, perché hanno solo fregato se stessi.

Lavorare con me, ad ogni modo, non deve essere facile. Spesso mi chiedo perché alcuni colleghi siano interessati a venire in aula con la sottoscritta. Insomma, la capacità di autoanalisi non mi manca: conosco i miei difetti, so come correggerli, ma spesso mi dimentico di farlo o non ho voglia di farlo. Non perdo facilmente le staffe, anzi, credo che in nove anni, si possano contare sulle dita di una mano le occasioni in cui ho alzato la voce... eppure se ne ricordano tutti, soprattutto io. Odio perdere il controllo e mi sottopongo a severe verifiche interne ogni volta che accade. 

E, credetemi, nessuno di voi vorrebbe avere a che fare col mio SuperIo. 

Credo che il difficile del lavorare con me sia la sincerità. Il tatto e i giri di parole si usano con utenti e pazienti, con i colleghi non si dovrebbe perdere tempo: se una cosa fa schifo, fa schifo, anche se a proporla è il Papa in persona. Ma non tutti sono in grado di sopportare le cose come le vedo io. I miei colleghi preferiti, spesso mi dicono: "Sei una persona orribile". Lo dicono ridendo, ma sappiamo tutti che è vero.

Io lo so, che certe cose posso dirle solo io e solo perché sono su una sedia a rotelle. 

Se guarissi improvvisamente, perderei la mia identità e il diritto di dire quasi sempre ciò che penso. Perché alcune cose possono essere dette solo da chi è in grado di dimostrare, a colpo d'occhio, di averne passate a sufficienza.

Ma non sempre serve dire le cose come stanno: essere onesti richiede persone in grado di accogliere la verità e capaci di farsene qualcosa. E, poiché odio sprecare tempo ed energie, mi concentro su chi è disposto a sperimentare e cambiare, mentre ai tradizionalisti dò sempre e subito ciò che vogliono: la solita minestra. Perché le persone non cambiano su certe cose e, soprattutto, non serve cambiarle. 
Se fossimo tutti uguali, il mondo andrebbe anche peggio.

Nonostante le mie idiosincrasie, riconosco che per lavorare e vivere bene, ho un bisogno fisico e mentale degli altri. In passato mi sono chiesta se avrei potuto lavorare da sola e la risposta è stata chiaramente no. 

Primo. 
Non riuscirei a sopportarmi.

Secondo. 
Non potrei mai essere il capo di me stessa: non riuscirei a lavorare per qualcuno che pensa di saperne sempre più di me.

Quanto a tutto il resto, finché incontrerò persone disposte a frequentarmi nonostante i miei comportamenti, non avrò grossi incentivi a cambiare. E davvero spesso domando ai miei amici cosa cavolo li spinge a chiamarmi dopo settimane in cui non mi faccio viva, perché presa da chissà che o annoiata da tutto. Ma nessuno mi ha ancora riposto in modo adeguato... credo che infondo non lo sappiano nemmeno loro.

Spesso l'ho chiesto pure a mio marito: 

"Come fai a stare con una che non sa nemmeno quanti anni ha senza fare il conto ogni volta? Una che cambia idea su cosa fare da un'ora all'altra? Una che pretende sempre troppo da sé e da chi le sta intorno?". 

Finalmente un giorno mi ha dato l'unica risposta plausibile che potesse soddisfarmi:

"Perché con te, tesoro, non ci si annoia mai."

E finché ci sarà mio marito Watson a ricordarmi di infilare le scarpe e a prepararmi la borsa prima di uscire di casa, almeno gli estranei potranno pensare che sono normale... per quanto possa sembrare normale una che va in giro su un'enorme carrozzina elettrica, senza accorgersi di ciò che attorno a lei rientra nella norma.








giovedì 10 maggio 2012

I quattro Cavalieri dell'Apocalisse

La vita di un disabile è un inferno e le limitazioni fisiche sono il minore dei mali.

Il vero dramma dell'essere disabili sono i quattro Cavalieri dell'Apocalisse: Collocamento mirato, INPS, ASL e ACI. Il fatto che stia scrivendo questo pezzo dopo aver ricevuto una lettera minatoria dell'INPS, non è un caso. E, visto che comunque han sempre ragione loro, mi sfogherò parlandovi di questo grande Ente previdenziale... non esattamente in termini lusinghieri.
Nemmeno voglio accennare alle trafile che un disabile deve percorrere per farsi riconoscere una pensione d'invalidità, perché lo fecero i miei genitori per me e mio fratello. Mia madre è solita dire che dovette consumare sette paia di scarpe di ferro e riempire sette bottiglie di lacrime, prima di ottenere la nostra pensione d'invalidità e noi che abbiamo fatto? Abbiamo trovato lavoro.
Neppure voglio tediarvi con la procedura necessaria a comunicare all'INPS che hai trovato un lavoro e che, pertanto, si tengano pure quei due soldi di pensione, con cui non camperesti nemmeno in un paese africano. Non ci si crede a quanti giri si debbano fare per dire a qualcuno che non vuoi più i soldi dello Stato.

Che, a ben vedere, trovare un impiego sarebbe stato pure più semplice senza il Collocamento mirato, dato che il lavoro te lo sei trovata da sola e hai rischiato di perderlo perché l'ufficio locale, nel quale sei iscritta, impiega tempi titanici e procedure deliranti per consegnare il tuo fascicolo all'ufficio di Milano. E tu allora che fai? Vai all'ufficio locale, gli chiedi di consegnarti il TUO fascicolo e quelli ti rispondono che non possono dartelo perché "è riservato". Riservato a chi scusate? Che cazzo c'è scritto sul MIO fascicolo che IO non posso vedere?

"Non posso divulgare queste informazioni".

C'è da diventare paranoici.

E notare che, l'unica iniziativa cui ho partecipato col collocamento mirato è stata una cosa, di cui non ho mai capito le finalità, ove un gruppo di disabili, di vario genere e tipo, veniva sottoposto a test attitudinali e di personalità in cui comparivano domande del tipo:

"Che sport ti piacerebbe praticare? Pallavolo, corsa a ostacoli o pattinaggio artistico?"
Ma che me stai a pijà per' culo?

E, infine, c'era il colloquio in cui, giuro, a me è stato detto che il collocamento non sarebbe stato semplice, perché una laurea era una qualifica troppo forte e, a quello dopo di me, è stato detto che il collocamento non sarebbe stato semplice, perché aveva solo un diploma professionale.

Ma pensate davvero che nel branco di disabili che attende in sala d'aspetto i vostri colloqui conclusivi non si scambino due parole? Siamo disabili, mica asociali!

Notare poi che, già in fase di screening iniziale, le prassi "politicamente corrette" si son viste al volo: mini-test attitudinale scritto. A seguire, divisione pubblica dei disabili in due gruppi in base ai risultati: disabili fisici da un lato, quelli con ritardo mentale dall'altro. Un ragazzo Down mi disse: "Io sono nel gruppo di quelli stupidi". Non potei che rispondere: "Qui gli unici stupidi sono i selezionatori, credimi."


Tra l'altro, non per criticare le metodologie altrui (n.d.r.: preambolo tipicamente adottato per criticare le metodologie altrui), ma il problema non è mai davvero stato fare il censimento dei disabili disponibili a lavorare (ovvero la maggioranza, perlomeno qui al Nord). Il problema semmai è convincere le aziende a puntare su un "cavallo zoppo", in un contesto ove non si tratta di correre, ma di produrre beni di consumo o servizio.
Attualmente, tra le altre cose, mi occupo anche io di placement e devo dire che qualcosa si muove pure per i disabili. Ma quando un'azienda "costretta" ad assumere una categoria protetta chiede alla collega del collocamento mirato: "Non si potrebbe avere qualcuno con qualche handicap poco evidente, tipo uno col diabete o piccoli problemi cardiaci", ringrazio di essere solo sul placement dei normodotati. Io ad aziende così risponderei: "Guardi, abbiamo esaurito il prodotto, e non ne arriveranno per un po'.  Se vuole però ho un paraplegico in offerta, molto più intelligente di lei".

Ma mettiamo da parte il collocamento mirato, che oggi ho già una carogna dentro, e pure la carogna soffre di ulcera peptica da stress. E perché? Perché l'INPS mi ha mandato una letterina. Si sono accorti oggi che, nel 2004, mi hanno dato dei soldi in più, quindi mi informano che non vedrò l'assegno di accompagnamento del mese di giugno. Vi spiego meglio: loro ci hanno messo quasi nove anni ad accorgersi che mi hanno dato dei soldi in più e io ho tempo nemmeno un mese per renderglieli con gli interessi, in una sola rata. Mi informano altresì che, se proprio voglio fare ricorso, posso farlo esclusivamente online, grazie al codice INPS di 120 cifre che cambia ogni due mesi e che ti porta nel Labirinto di Cnosso, senza un cazzo di filo di Arianna da seguire.

Notare che, per altre pratiche, i termini di decorrenza per le azioni di contestazione sono di cinque anni. Per le pensioni d'invalidità, l'INPS ha dieci anni di tempo per accorgersi dei propri errori.

No, dico: a volte lasciarei fare alla mia malattia il suo decorso, solo per non dar soddisfazione all'INPS.

Per un po' ho pensato di fare ricorso e chiedere la dilazione del pagamento, poi ho aperto la procedura online e ho visto che nel numero di pratica compariva per due volte il diciassette e un 23. Non ho dato l'invio, perchè io i messaggi che mi manda il cosmo li colgo, e quello era lampante:

17, "'A disgrazia"
23 "'O scemo" che fa il ricorso

Ma io non posso perdere tutto sto tempo per un errore INPS. Quindi pagherò, senza un fiato, perchè oggi non tengo la forza di impugnare la lancia contro i mulini a vento. Ma siccome non amo rimuginare a lungo, ecco che mi sfogo scrivendo. Perchè io infondo credo nel karma: considerando quanto sono stronza, probabilmente mi merito di pagare questi 493 euro. Mi consolo immaginando quali atroci sofferenze patirà il funzionario che si è preso la briga di andare a ricontrollare dei pagamenti di secoli fa, per rendere un po' più complicata la vita di un disabile.

Se non credessi profondamente nel karma, invece dei ricorsi online, farei ricorso alla violenza.

Del resto ho da poco vinto contro l'ACI, quindi non voglio sfidare ulteriormente la sorte per un po'. Anche perchè ho tanto lottato, che mi chiedo se la vittoria valesse davvero la pena dello sforzo. 
All'ASL ho già dedicato pagine e pagine di racconti, quindi non sto a tediarvi ulteriormente.
Sapete che vi dico: la prossima volta rinasco deambulante, oppure ascolto quel che dice mia madre da anni: "Tu dovevi studiare da Avvocato"

venerdì 4 maggio 2012

Tutta colpa di mia madre

Se oggi sono ciò che sono, è in gran parte colpa dei miei genitori. Ci piaccia o meno, per imitazione o reazione, buona parte del nostro carattere dipende da chi ci alleva, e non solo per quello che ci dicono di fare, ma soprattutto per quello che fanno o facevano davvero loro stessi.


Mio padre era un mulo da soma, che non credo abbia mai preso un giorno di permesso dal lavoro in tutta la sua vita. A parte il lavoro dunque, e la passione per i localini rustici dove si mangia cibo procacciato alla vecchia maniera, da lui non potevo prendere altro che l’etica lavorativa. Sono una dei pochi disabili al mondo che lavora e usufruisce raramente dei permessi lavorativi retribuiti previsti dalla legge 104. Se sono in ferie, non riesco a sentirmi bene se non controllo la posta dell’ufficio almeno una volta al giorno.  
Essendo quindi la figura paterna perennemente impegnata al lavoro, gran parte del caratteraccio e dei discutibili comportamenti sociali, non potevano che derivare dal lato materno. Ora lei ovviamente nega e si è ammorbidita su diversi fronti negli anni. Adesso è lei quella “buona”, ma solo ed esclusivamente perché io e i miei fratelli siamo sufficientemente maturi e indipendenti per incazzarci da soli e spaccare il culo ai passeri, senza il suo aiuto.

Come farebbe qualsiasi mamma gatta, che insegna ai propri cuccioli a cacciare portandogli un topino tramortito, pure mamma Marisa incitava giorno dopo giorno i propri figli a difendersi da soli. Ovviamente non è che potesse portarci dei funzionari pubblici storditi, per insegnarci a far funzionare il sistema, ma non mancava mai di raccontare senza peli sulla lingua cosa diceva e faceva per ottenere quello che avrebbe dovuto essere giusto sin dal principio. Alle bambine normali si raccontano le favole sulle Principesse, a quelle disabili le verità scomode: non ci sarà nessun Principe azzurro che verrà in tuo soccorso, quindi rimboccati le maniche e cammina… o meglio, rotola. Probabilmente, nel raccontare le cose, mamma accentuava un po’ i toni e si dipingeva più feroce di quanto non fosse in realtà ma io, per non sbagliare, mi sono sempre ispirata fedelmente ai suoi resoconti. Anche perché lei è alta un metro e ottanta per novanta chili e fa paura solo a guardarla. Io da seduta incuto molto meno timore reverenziale, quindi devo abbaiare più forte, tipo Chihuahua.
Oltre alle mitologiche storie di madri che sfidano la società per il bene dei propri cuccioli, come molte altre madri, pure la mia dispensava e dispensa aforismi tipo maestro Joda, talvolta con le medesime idiosincrasie verbali. Talune frasi sono quelle tipiche di ogni madre e inizio a sospettare fortemente che, appena diventi puerpera, ti diano il manuale delle citazioni materne, da sciorinare alla bisogna. Altre invece sono tutte sue e create appositamente per una prole più o meno diversamente abile.

Il motto di casa mia, ogni volta che qualcuno si lamentava di essere stato spintonato, strattonato o pizzicato da un bambino normodotato era:
"Se non puoi difenderti con le mani, usa la lingua."

E ho imparato, oh se ho imparato a difendermi bene con la lingua! Ho imparato così bene, da mettere a dura prova le coronarie genitoriali durante tutta l’adolescenza e per buona parte della giovane età adulta. Credo che nessuna madre abbia desiderato maggiormente di rimangiarsi un proprio consiglio. Tant’è che, quando qualcuno chiedeva intercessione presso di lei affinché moderassi l’uso smodato delle mie abilità verbali, lei non poteva che rispondere: "Quella non sta zitta manco se l’ammazzi".
E questa cosa, che prima tanto la inorgogliva, con gli anni è diventata il suo cruccio. Alla mia tesi di laurea, per esempio quando, durante la discussione, risposi con troppa veemenza al correlatore, dal fondo della sala si udì chiaramente la sua voce sconsolata: "Mai zitta sta, mai!".

Comunque, col tempo, mia madre si rese sempre più drammaticamente conto di aver esagerato e, anziché difendere me, cercava di proteggere gli altri da me. E iniziò a incolparsi della cosa: "Dovevo farvi meno cervello e più gambe".
Ogni volta che avevo male da qualche parte, qualsiasi fosse l’origine del dolore, lei ci vedeva una buona occasione per dire: "La lingua non ti fa mai male però!"


E quando tornavo a casa lamentandomi dei soprusi, partiva ormai dal presupposto che fosse in qualche modo colpa mia:
"Mamma, ho mal di gola" - "Per forza! Vai in giro mezza nuda!"

"Un bambino mi ha dato uno spintone." - "E tu cosa gli hai fatto?"
E succede tutt’oggi: "Ieri sera abbiamo sentito tuo marito urlare fino a qui. Che cavolo hai detto a quel poverino?"

Mio marito ovviamente ci marcia e alimenta il mito della mia perfidia con dettagliati racconti di soprusi domestici. Ma se sta tanto male, perché non torna dai suoi? Provate a chiederglielo…
Anche lui ha le sue convinzioni esagerate sul mio conto. Quando gli espongo alcune preoccupazioni sul mio stato di salute e magari confesso di essere preoccupata di peggiorare fisicamente, lui mi rassicura: “Tesoro, credimi: con la lingua che ti ritrovi, tu non morirai di morte naturale.” Non ho ancora ben capito se è una minaccia o una promessa ma, nel caso di mia prematura dipartita, credo che lui non sarebbe l’unico sospetto, ahimè.

Tornando agli aforismi materni, un quantitativo esorbitante di motti era dedicato all’istruzione, perché a casa mia potevi pure non muovere un passo, ma ciò non ti autorizzava a portare a casa un’insufficienza e forse nemmeno la sufficienza scarsa:
"Ho capito: hai preso sette e mezzo. Ma perché non otto?"

"Ho preso otto in italiano" - "E in matematica?"
“Ho preso otto in matematica!” “Hai fatto solo il tuo dovere.”


E per quanto io e mio fratello studiassimo, per lei non studiavamo mai le cose giuste:
“Ma va, che la Psicologia son tutte cazzate.”

“Che roba è sta ‘comunicazione’? Perché non comunichi già fin troppo?”
E ovviamente la cosa giusta da studiare, per entrambi i figli disabili, è sempre stata la stessa:


"Dovevi fare l'avvocato."
Qualche tempo fa, dopo la seconda laurea di mio fratello, lui mi confessò di considerare una laurea in giurisprudenza. Dopo anni e anni di “Non ho capito perché non avete studiato da Avvocato”, l’ho minacciato di morte se avesse intrapreso gli studi in legge.

Mia sorella, bene o male, è sempre scampata alle ossessioni scolastiche materne: non che potesse permettersi di portare a casa un insufficienza, ma il fatto che deambulasse autonomamente compensava forse in parte la media del sei e mezzo. Credo che mamma sia interiormente convinta che non si possa studiare e camminare perfettamente allo stesso tempo.
Ma con gli anni, anche l’ossessione per lo studio divenne un problema:


“Con quello che mi fai spendere in libri! Non potevi drogarti come tutti gli altri?"
“Ma si può studiare tutte quelle ore? Almeno la testa pensavo ce l'avessi buona!"

Altra tematica cara alla genitrice è sempre stata quella di ciò che potevamo o non potevamo fare e ciò che avremmo dovuto farcene della curiosità degli ignoranti. Il tutto si riassume nelle seguenti perle di spietata saggezza:
"Se una cosa la vuoi fare, falla."

"Che sia facile o difficile, va fatto e basta."
“Se lo vuoi fare davvero, un modo si trova.”
"Io dico di no, poi chiedi a tuo padre" (Trad. it.: “Fai come vuoi”)
"Io non ti ci porto, ma tanto basta che dici 'papino' e quello ci casca come un peracottaro" (Trad. it.: “Ti ci porta papà”)
"Quando sarà il momento, ci penseremo n’é?" (Trad. it.: “Una soluzione salta sempre fuori.”)
“Ora di domani, posso pure essere morta.” (Trad. it.: “Non preoccuparti delle cose con troppo anticipo.”)
"Se ti guardano è perché sei bella."
"Se te la prendi perché una scema ti guarda, sei più scema di lei."
"Ma che te frega della gente!? Se vogliono guardare, che guardino."
Che dire poi dell’approccio terapeutico familiare? Il concetto cardine delle cure materne è sempre stato lo stesso: se si può curare, prendi il farmaco necessario, se non si può curare, lamentarsi non risolve nulla. Inutile dire che, se hai due figli che non camminano, le priorità sono chiare: le malattie fisiche passino, i disagi psicologici sono inaccettabili. A casa mia sono tutti incazzati, perché probabilmente non possono far vedere di essere depressi o ansiosi.
Immaginate con quanto entusiasmo mia madre ha accettato la mia specializzazione in psicologia.
Tuttora, quando mi chiede se posso parlare con qualche persona in crisi, specifica: “Non ha niente n’é: è tutto nella sua testa!”.
Diciamo che la mia laurea in psicologia è stata una strategia di sopravvivenza familiare: così lei si può occupare dei problemi “veri” e a me passa tutti quelli “immaginari”. Del resto il suo cavallo di battaglia è sempre stato: "E adesso perché stai piangendo? Piangere non ha mai risolto un cazzo!".
Ovvio che poi faceva il possibile e pure l’impossibile per rimuovere qualsiasi cosa causasse le nostre sofferenze emotive e, proprio per questo, ho sempre pensato che facesse benissimo a non trattarci coi guanti di velluto. Non ho mai conosciuto nessuno che sia stato bene quando qualcuno piangeva assieme a lui. Le persone non hanno bisogno di compassione ma di comprensione, e nessuno meglio di mia madre ci ha mai capiti meglio.
Lei sicuramente piangeva quanto e forse più di noi: da lei abbiamo imparato che è meglio piangere in privato, per non far star male chi ti vuole bene. E poi, la grande verità che pochi confessano è che, se ti atteggi da forte, ti senti più forte, se piangi, ti senti una merda. E lo sapeva bene la mamma di Forrest Gump, che come tutte le mamme del mondo dispensava aforismi al figlio: “Stupido è chi lo stupido fa”.
Quindi niente “bambagia” per la nostra stirpe.

Anche per quanto concerne i disturbi fisici, non è che tutti dessero diritto all’intervento farmacologico.
"Non si prendono medicinali per il ciclo: ringrazia che ce l'hai."

“E’ solo un po’ di malavoglia: va al lavoro che ti passa.”
"Ho capito: ti fa male. Posso farci qualcosa? No. E allora è inutile che senti male."
"Chissà perché, quando devi uscire stai sempre bene."
"La sera leoni, il mattino coglioni!"
Infine ci sono sempre stati i principi cosmici di Mamma Marisa: imperativi categorici inviolabili, ripetuti tante volte che noi stessi ce li ripetiamo fra noi e li dispensiamo agli altri.


“In questa casa, né logie (dal dialetto veneto: donna di facili costumi) ne vagabondi”
"Qui non c'è niente di mio e di tuo. Qui, è tutto mio!" – che pronunciato da me o uno dei familiari acquisiti diventa: "Qui non c'è niente di mio e di tuo. Qui è tutto di tua madre!"
"Questo c'è da mangiare."
"Se non mangia non ha fame."
"Meglio in anticipo che in ritardo."
"Se piace a te..." (Trad. it.: “Non mi piace.”)

Vi chiederete come sia stato possibile sviluppare tanta sicurezza e autostima, nonché l’apparentemente assurda convinzione che nostra madre non solo ci amasse, ma fosse anche profondamente orgogliosa di noi. Ecco, un po’ dipende dal fatto che, quando ci sgrida per la nostra lingua lunga, le si disegna quel mezzo sorriso compiaciuto, che non riesce proprio a reprimere. Inoltre è sua abitudine parlare di noi con gli estranei come se non fossimo presenti:
“Eh no, non camminano, ah ma hanno una testa…”

“Mia figlia per fortuna ha una bella testa anzi, a dire il vero, io così ne ho due.”
“Tanto i miei san difendersi da soli.”
“Eh va beh… uno fa quel che può con i figli. Per fortuna coi miei, sono stata fortunata.” – E qui tutti la guardano come se si fosse bevuta il cervello.
“Sì, i due che non camminano sono laureati e lavorano a Milano. L’altra non ha voluto andare avanti con gli studi, ma è proprio una brava ragazzina, che lavora sodo.”
“Sì, la grande è sposata e quella piccola ha il fidanzato. No, han trovato due bravi ragazzi… non delle cime come loro, ma col carattere che si ritrovano, ci vogliono quelli pazienti.”
"Mia figlia è laureata, lavora a Milano, sposata... La tua? E beh, anche ad averli sani, poi non è detto..."  

Ecco: questo quanto dispensato quotidianamente da mia madre ai propri figli. E credo ritenga pure di dover essere adeguatamente rimborsata per tutta questa saggezza, perché almeno una volta l’anno ci dice: “Non vedo l’ora di andare in una casa di riposo. Mica una di quelle per poveracci: una di quelle costose, dove ti fanno tutto. A vostre spese.”
 Il famigerato "Toast Skagen"